Al giorno d’oggi il nostro modo di vivere e ascoltare musica è totalmente mutato grazie allo sviluppo tecnologico, ma questa non è una novità. Cerchiamo la funzionalità, la compattezza, vogliamo poter ascoltare i nostri brani (e non più album) mentre siamo in autobus, in fila al supermercato, mentre corriamo nel parco sotto casa.
Se ora le nostre band e cantanti favoriti si trovano virtualmente raccolti sul nostro smartphone osmartwatch (ebbene sì), una volta la musica veniva riposta in una libreria vera e propria, con i vinili prima e le musicassette e compact disc dopo, quando ancora la riproduzione casuale era un concetto del tutto ignoto.
Il disco in vinile venne introdotto negli Stati Uniti nel 1948 e può considerarsi non solo supporto musicale o strumento di marketing, del momento che diverrà oggetto artistico a 360 gradi. Il packaging fu spesso carattere distintivo di un album, un modo per riconoscerlo, al di fuori del proprio contenuto.
Nel corso degli anni ’50 le cosiddette cover avevano un’aria abbastanza anonima, non mostravano grandi particolarità. La svolta infatti avvenne negli anni ’60, verso la fine, di cui la famosissima copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club dei Beatles ne fu un esempio rivoluzionario. Siamo nel 1967.
Realizzata dagli artisti Jann Hawort e Peter Blake, su suggerimento di Mr. McCartney, l’anno successivo vinse un Grammy per “miglior copertina per album”.
Si tratta infatti di un collage assolutamente singolare (e più volte imitato) di cui la band ne è protagonista, circondata da personaggi noti (l’ipotetico pubblico davanti a cui avrebbero voluto esibirsi), composizioni floreali ed oggetti vari, di cui alcuni molto bizzarri.
Apprezzatissima e soggetta anche a dure critiche, fu portatrice di due grandi novità: per la prima volta la copertina si apriva a libro e sul retro vi erano stampati i testi delle canzoni. Venne così inaugurata una nuova era: quella delle cover artistiche.
Lo stesso anno ci fu un’altra copertina altrettanto innovativa quanto popolare, quella diThe Velvet Undergound & Nico, realizzata da Andy Warhol, icona della Pop Art. La sua originalità stava nell’uso del tratto distintivo dell’artista, stilemi mai visti prima su una cover.
La celebre banana su sfondo bianco non solo era realizzata ricordando i suoi dipinti, ma era in realtà un adesivo che, una volta rimosso, rivelava un’immagine provocatoria ed altamente evocativa.
Quello di Warhol per le cover di vinili fu un lavoro decisamente influente, che lo seguì lungo tutto il suo percorso artistico, dalle origini (la prima copertina venne realizzata nel 1949, l’artista aveva solo 21 anni) agli ultimi anni di vita. Una produzione che consta in più di 60 opere e che si intreccia con la sua stessa evoluzione artistica, quasi ne fosse uno specchio.
La semplicità della cover di White Light/White Heat (1968), realizzata sempre da Warhol per The Velvet Undergound, nasconde in sé un gioco peculiare: spostando in controluce la copertina, che appare in tinta unita nera, si svela l’immagine di un teschio che stringe un pugnale fra i denti.
Tre anni più tardi invece crea per i Rolling Stones la copertina diSticky Fingers, nata da un complesso lavoro di progettazione dell’artista stesso. La fotografia ritrae, sulla parte frontale, un paio di jeans con un evidente rigonfiamento sull’area genitale (non di Mr. Jagger, come molti credevano) con tanto di vera zip funzionante cucita sulla stessa. Le fotografie sono di Billy Name, collaboratore di Warhol.
Sempre per loro, nel 1977, realizzò la copertina di Love You Live, una miscela tra disegno e fotografia. Gli scatti ritraggono i membri della band che si mordono fra di loro scherzosamente. Quelli all’interno sono in bianco e nero, mentre all’esterno abbiamo un’esplosione di colore.
Gli artwork per le cover di Liza Minelli Live at Carnegie Hall (1981), Silk Electric di Diana Ross (1982), Aretha di Aretha Franklin (1986) e Menlove Ave. di John Lennon (e tanti altri realizzati nello stesso periodo) sono molto simili tra di loro.
Guardando queste copertine sembra di osservare i dipinti esposti al MoMa di New York. Si tratta infatti di ritratti realizzati elaborando, come solo Warhol sa fare, le fotografie degli artisti insieme a disegni,forme geometriche, tratti marcatissimi, giocando con le sfumature, luci ed ombre. In alcuni casi l’immagine veniva anche stampata sul disco.
Tornando indietro di qualche anno, è doveroso ricordare il lavoro del fumettista americano Robert Crumb per la copertina del secondo album dei Big Brothers and The Holding Company, Cheap Thrills (1968). Altro non fu se non un modo originale e molto simpatico di raccontare il contenuto del disco attraverso l’arte del fumetto: ad ogni canzone vi è infatti dedicata una vignetta.
Nel 1975, l’album di debutto della cantante Patti Smith, Horses, prevedeva un packaging molto semplice: sul fronte della copertina e al suo interno le foto in bianco e nero raffigurano l’artista, vestita e non, nell’appartamento newyorkese del fotografo e amico Robert Mapplethorpe.
Mapplethorpe le realizzò con solo l’aiuto della luce naturale e della sua Polaroid. La cantante si oppose fermamente al tentativo di alterazione da parte della sua casa discografica, poiché il risultato ottenuto era proprio ciò che desiderava.
Moltissime delle fotografie ed artwork concepiti come cover divennero vere e proprieicone. E’ il caso del lavoro realizzato da Storm Thorgerson, fotografo e designer britannico, fondatore dello studio grafico Hipgnosis (insieme a Aubrey Powell), produttore di innumerevoli copertine che hanno segnato la storia della musica.
Una serie che comprende lavori per i nomi più noti del rock, in cui però è d’obbligo ricordare le cover di Houses of the Holy (1973) e In Through The Out Door (1979) dei Led Zeppelin.
La prima, arrivata 50° nella classifica “Le 100 migliori cover di sempre” della rivista Rolling Stone, è realizzata grazie ad un fotomontaggio surreale di Powell, in cui due bambini che si arrampicano su alcune rocce vengono moltiplicati nella scena, in modo da creare un’immagine statica e dinamica allo stesso tempo.
Della seconda, invece, ne furono pubblicate sei versioni differenti: lo scatto ritrae sette persone all’interno di un bar e ogni variante inquadra la scena dal punto di vista di uno dei soggetti presenti. Se vi state chiedendo il perché della pennellata sulle foto, essa simboleggia una nuova mano di colore, come a rappresentare lo spirito di rinnovamento dell’album.
Ma sicuramente i lavori più celebri di Thorgerson e dello studio Hipgnosis sono quelli realizzati per i Pink Floyd: Ummagumma (1969), Atom Hearth Mother (1970) e le iconicheThe Dark Side of the Moon (1973), Wish You Were Here (1975), Animals (1977), giusto per citarne alcune.
La copertina del vinile di The Dark Side of the Moon era pieghevole e ritrae un prisma triangolare rifrangente un raggio di luce. Il disegno, ideato da Thorgerson e Powell e creato da George Hardie, piacque subito alla band.
Le prime edizioni della cover erano esenti da riferimenti alla band e al titolo, più tardi si optò per applicare un adesivo e più tardi ancora si decise di passare alla stampa. L’immagine racchiude all’interno tre elementi, quali la luce in richiamo ai concerti della band, i testi e la semplicità pensata per questo nuovo progetto (semplicità però solo apparente).
Quella di Wish You Were Here fu invece, come suggerisce il titolo, un progetto legato alla tematica dell’assenza. Essa raffigura due uomini d’affari nel momento in cui si stringono la mano, uno di loro è in fiamme.
L’idea era quella di ricreare il sentimento di paura, spesso ricorrente, nel mostrare i propri sentimenti, nel mettersi a nudo, con la conseguenza di rimanerne “scottati”. Lo scatto venne realizzato senza l’ausilio di programmi distorcenti, bensì vennero impiegati due stuntman (all’uomo in fiamme, inizialmente, presero fuoco i baffi), che vennero fatti posare all’interno dei Warner Bros Studios di Los Angeles.
La cover realizzata per Animals invece ha dentro di sé quello che divenne uno dei simboli dei Pink Floyd stessi: il famoso flying pig (in riferimento alla traccia Pigs on the Wing). La fotografia venne scattata presso la Battersea Power Station di Londra, con non pochi problemi, poiché fu difficile far si che il maiale gonfiato ad elio fluttuasse perfettamente tra le ciminiere.
Con Thick as a Brick, quinto album dei Jethro Tull (1972), ci troviamo di fronte ad un packaging insolito e innovatore: un quotidiano sfogliabile di 12 pagine, con tanto di cruciverba e giochi da compilare, finte notizie scritte dai membri della band, l’oroscopo e annunci pubblicitari.
In risposta alle critiche ricevute per l’album precedente, vennero aiutati da un collega ex giornalista, Roy Eldrigde, che ne curò il design. Altra copertina geniale fu quella per Some Girls dei Rolling Stones (1978), creata dall’artista Peter Corriston, un caso che suscitò parecchie polemiche.
Il packaging era strutturato come uncatalogo pubblicitario dove, sul fronte, i volti truccati dei membri della band erano affiancati da quelli di famose celebrità (alcune di loro intentarono causa per mancanza di autorizzazione), come in una rivista di acconciature femminili.
Il tema pubblicitario venne utilizzato anche dagli Who per la cover del loro terzo albumSell Out (1967), in cui gli scatti del fotografo David Montgomery li ritrae mentre sponsorizzano alcuni prodotti, reali e fittizi, giocando con il titolo stesso che significa “venduti”.
Ciò che ne traspare è un concetto di copertina vista come concreta opera d’arte, un modo per completare l’essenza musicale dell’album, per fissare meglio il messaggio voluto dalla band, allontanandosi così dal classico involucro di cartone e divenendo vero e propriooggetto da collezione.
Quello che non si vedeva l’ora di acquistare era un piccolo pezzo di storia che rendeva i fan più vicini ai propri artisti, un piccolo libro che non si limitava a raccontare graficamente tramite foto, disegni, dipinti o composizioni. Ascoltare le canzoni e poter leggere i testi era un’esperienza esaltante, se pensiamo anche al fatto che internet non esisteva ancora.
Un fascino che pian piano si è perduto a partire dagli anni ’90, con l’avvento dei CD, e quasi totalmente sovrastato dall’uso sempre più diffuso di iPod e similari.