Ambiguità, imprevedibilità, maestria. Queste le parole che più si addicono a L’ultimo Inquisitore (Goya’s ghosts), pellicola del 2006 del regista ceco Milos Forman che, riuscendo a ricostruire perfettamente l’atmosfera della Spagna di fine XVIII secolo e trasportandovici lo spettatore, illustra, più che la vita di Goya o gli eventi storici del periodo, l’imprevedibilità e la fuggevolezza della vita umana.
Inés, giovane figlia di un ricco mercante spagnolo, è la musa ispiratrice di Francisco Goya, già famoso per essere pittore di corte e abile ritrattista ed incaricato in quanto tale di ritrarre Padre Lorenzo, membro dell’Inquisizione Spagnola e sostenitore della necessità di inasprire la caccia all’eretico per eliminare definitivamente dalla Penisola Iberica la piaga del giudaismo.
Allo stesso tempo Goya è segretamente indagato dall’Inquisizione per incisioni sacrileghe e denigratorie (ormai diffuse fino all’America Latina) nei confronti di una Chiesa crudele ed oppressiva.
Quando Inés, in una taverna, viene vista rifiutare carne di maiale, scatta l’accusa di giudaismo e la giovane, torturata fino alla confessione, nonostante i disperati tentativi di suo padre di convincere Padre Lorenzo -tramite Goya- ad intervenire per la scarcerazione della figlia, resta incatenata nelle segrete di un convento per quindici anni, fino all’arrivo delle truppe napoleoniche in Spagna.
Di grande impatto la scena in cui il padre di Inés, venuto a sapere che la figlia era stata sottoposta alla corda, arriva a torturare Lorenzo e a fargli confessare di essere una scimmia per dimostrare l’assurdità di considerare veritiera una confessione estorta sotto tortura, confessione che lo macchierà di infamia e lo obbligherà a lasciare la Spagna.
Nel frattempo Inés ha avuto una figlia, che le è stata sottratta, frutto degli abusi di Padre Lorenzo, il quale è fuggito in Francia ed ha abbracciato gli ideali della Rivoluzione Francese. La famiglia di Inés è stata uccisa dalle truppe napoleoniche: non resta che affidarsi a Goya, oramai sordo, che tenterà di aiutarla nella ricerca della figlia.
Padre Lorenzo, con l’intenzione di nascondere l’esistenza di una figlia illegittima, prima fa rinchiudere Inés in un manicomio e poi, dopo aver ritrovato la figlia -Alicia- che si guadagna da vivere facendo la prostituta, cerca di indurla ad andarsene nelle Americhe.
I tentativi di Goya di riunire madre e figlia risultano vani, e il film si conclude con Padre Lorenzo condannato a morte dagli stessi inquisitori che erano stati imprigionati dalle truppe napoleoniche (tornati al potere con la Controrivoluzione), Alicia salvata dalla deportazione da un ufficiale britannico che assiste all’esecuzione dal terrazzo di un palazzo signorile e Inés, ormai in preda alla follia, che stringendo al petto una neonata che crede essere Alicia, segue assieme ad una folla di bambini festanti il cadavere di Padre Lorenzo, tenendolo per mano.
Una collezione di scene che trasmettono con violenza la forza della Storia.
Una storia resa abilmente nell’ambientazione, frutto di un accurato studio della fotografia che risulta essere un puzzle di ricostruzioni di opere di Goya.
Scopriamo così che Inés, personaggio di fantasia, nasce in realtà dal ritratto di Francisca Garcìa y Sabasa, una giovane che Goya avrebbe notato nella famiglia di un Ministro spagnolo per la sua bellezza (un’opera minore che diventa così fulcro della pellicola di Forman).
Così come assistiamo alla realizzazione del ritratto della regina Maria Luisa di Borbone-Parma e ci ritroviamo all’interno de “Il tribunale dell’Inquisizione” nel momento in cui Lorenzo, tornato dalla Francia con le truppe napoleoniche, condanna a morte i vecchi colleghi dell’Inquisizione.
La ricerca di una collimazione perfetta tra opere di Goya e fotografia si spinge però anche alla stupefacente somiglianza degli attori ai soggetti delle tele: Natalie Portman, interprete peraltro sia di Inés che della figlia Alicia (la cui bravura preannuncia l’Oscar per Il cigno nero), ricorda fortemente sia Francisca Garcìa che Antonia Zerate, al cui ritratto è probabilmente ispirato il personaggio di Alicia; Goya stesso sembra essere stato strappato dai celebri autoritratti. Non a caso il titolo originale è Fantasmi di Goya, come a voler sottolineare l’intenzione di far rivivere, più che Goya, i personaggi delle sue tele e i loro drammi.
Una storia che, oltre ad essere perfettamente riportata in vita, mostra tutta la sua crudeltà: è infatti la storia delle vite dei personaggi, la storia-Fato che condanna la giovane Inés ad essere eterna prigioniera della volontà altrui e della follia solo per aver rifiutato di assaggiare del maiale in una serata qualunque passata in taverna.
La stessa storia che, come in un gomitolo irreversibilmente aggrovigliato, porta Alicia, nata dalla sofferenza di una donna violentata in catene da chi avrebbe dovuto salvarla e impazzita all’idea della figlia portatale via appena nata, a diventare non più una prostituta ma la fidanzata di un ufficiale Inglese salito al potere con la Controrivoluzione.
Goya, che da questo punto di vista conduce invece un’esistenza lineare, agisce come il burattinaio con i fili delle marionette, tentando invano di districare una matassa di ingiustizie evidente non solo nella vita degli altri personaggi, ma soprattutto nel suo impegno nel denunciare l’empietà dell’Inquisizione e dello strapotere dei più forti sui più deboli.
L’effimero della vita sotto il potere di “Mostri storici”, questo è il fulcro de L’ultimo inquisitore: Milos Forman ha infatti dichiarato che la passione per l’opera di Goya e l’interesse verso gli orrori dell’Inquisizione nascono dall’esperienza personale dei regimi del Novecento.
In quella che è oggi la Repubblica Ceca, il giovane Forman riconosceva prima nel nazismo e poi nel regime comunista gli stessi tratti dell’Inquisizione, nella tortura e nella condanna insensata e dettata solo da interessi scellerati.
E se vi venisse in mente, guardando il film, che fortunatamente al giorno d’oggi crudeltà simili non avvengono più, sappiate che vi sbagliate: basta pensare ai campi di lavoro in Siberia in cui è stata rinchiusa senza troppe spiegazioni Nadezhda Tolokonnikova, una delle Pussy Riots o, senza andare tanto lontano, agli OPG italiani (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), veri e propri manicomi le cui condizioni furono denunciate da una commissione del Senato nel 2011 e di cui, poi, non si seppe più nulla.
Un film che resta impresso, profondo, accattivante e ricco di spunti di riflessione morali, politici e culturali: in una parola, imperdibile.