NORWEGIAN WOOD, A TOKYO BLUES – HARUKI MURAKAMI

I sat on the rug, biding my time,

drinking her wine.

We talked until two, and then she said:

“It’s time for bed.”

Norwegian Wood (1987) è un romanzo che non si dimentica facilmente. Forse perché ricordi e memoria occupano un ruolo centrale nelle vicende del protagonista Toru Watanabe, forse proprio perché l’intero libro è un lungo, struggente, flashback.

Un ragazzo, che si crede molto ordinario, senza esserlo, studia svogliatamente teatro nella Tokyo degli ultimi anni Sessanta. E’ un ragazzo di provincia: viene da Kobe, che allora non era l’odierna metropoli da 1.5 milioni di abitanti, e fugge nella grande città (anche) per dimenticare il suicidio del suo migliore ed unico amico Kizuki.

Per caso, un giorno, incontra Naoko, che era la fidanzata di Kizuki quando questi inspiegabilmente si tolse la vita a 17 anni. Anche lei è a Tokyo per dimenticare, e i due si iniziano a vedere, in interminabili passeggiate silenziose in giro per la metropoli.

Spesso non parlano, camminano uno a fianco all’altra, stando soli assieme. In due è impossibile dimenticare, però, e la strana solitudine di coppia non può durare.

Allo struggimento e alla fragilità di Naoko si contrappone la disperata vitalità di Midori, una compagna di classe di Watanabe. Apparentemente trasgressiva, porta i capelli corti e le gonne ancora più corte, ride rumorosamente e, anche se ha un fidanzato perennemente imbronciato, non nasconde al nostro protagonista quanto sia di lui affascinata.

Vuole essere felice, lo vuole con tutta se stessa, e racchiude la sua personale visione in un bellissimo scambio che ha con Watanabe:

“Per quanto una situazione possa sembrare disperata, c’è sempre una possibilità di soluzione. Quando tutto attorno è buio non c’è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all’oscurità.”

Watanabe è una persona tranquilla, tendenzialmente pigra, che si autodefinisce svogliato in tutto ciò che fa, e si trova legato ad entrambe le ragazze, ciascuna che nasconde le proprie sofferenze, sperando al contempo che queste vengano notate.

Sente di doverle aiutare, ma è lui il primo a bastare appena per se stesso, figurarsi altre due persone così diverse tra di loro. Il romanzo non è, però, una storia d’amore. L’amore c’entra poco, viene fatto un paio di volte nel libro, e per altro non nelle combinazioni che ci aspetterebbe.

E’ anzitutto un affresco onesto ed essenziale dell’incredibile solitudine che i giovani giapponesi vivevano, e tuttora vivono, schiacciati dalle fortissime pressioni esterne di essere “fonte di orgoglio” e di trovare un posto nella società, a cui molti di loro rispondono con il suicidio, che spesso è drammaticamente privo di senso.

Il Buddismo, anche nella sua declinazione nipponica dello Scintoismo, non condanna il suicidio, a differenza del Cristianesimo, e la conseguenza è che venga visto da molti come un – per noi aberrante – modo di ricominciare da capo, di porre anticipatamente fine ad una brutta giornata, nella convinzione che la seguente sarà probabilmente migliore.

Non crediate sia solo triste, però: si ride e si sorride, grazie alla rosa di meravigliosi o stravaganti personaggi secondari che accompagnano i tre protagonisti, caratterizzati in modo completo e vivido da pochi tratti, senza strafare, in una rivisitazione vagamente occidentalizzata della millenaria tradizione degli Haiku.

La lingua di Murakami, infatti, tradotta mirabilmente da Giorgio Amitrano, è essenziale, mai prolissa, ironica senza essere dissacrante, sintetica ma né scarna né piatta, e ricorda per potenza e magnetismo quella di Ernest Hemingway, scrittore tra i preferiti dell’autore giapponese, insieme a Francis Scott Fitzgerald (da noi raccontato qui: http://goo.gl/vSfjSm).

Murakami ha scritto il romanzo tra Mykonos e la Sicilia, ha vissuto in America e insegnato in Inghilterra, e prima di diventare il maggior scrittore giapponese era il miglior traduttore di letteratura americana.

Forte della sua conoscenza dell’occidente, ci porta per mano a conoscere parte della sua cultura, che malgrado tutto ama.

Amore che riesce, nonostante la malinconia, a trasmettere in questo blues che le dedica: lo fa descrivendo con poche righe la pace delle foreste di Kobe, la frenesia metodica e le luci intermittenti di Shinjuku, il rosa pallido dei fiori di ciliegio che nascono e muoiono in una settimana, il fermaglio dei capelli di Naoko, che resiste al vento primaverile, l’improvvisa risata rumorosa di Midori, che fa sobbalzare i pendolari in metropolitana.