A bout de souffle, una rivoluzione “fino all’ultimo respiro”

“Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri”

“Chabrol ha ragione, quel che importa non è il messaggio, è lo sguardo”

Jean-Luc Godard

Estrapolando queste due frasi dal contesto in cui le abbiamo trovate, si può notare come assurgano immediatamente  a esempio assoluto di ciò che è il cinema, ossia immagini e loro rappresentazioni; tanto più che la parola chiave, la vera e propria cifra per decrittare quello che è il complesso filmico, ritorna in entrambe le citazioni proposte: è lo sguardo il punto nodale di quest’esperienza artistica, come è ovvio che sia, ed è lo sguardo, inteso metonimicamente come “fruizione”, che ha inteso la vera e propria rivoluzione portata negli anni ’60 dai registi della Nouvelle vague, primo fra tutti Jean-Luc Godard.

Negli anni ’30 e ’40 il cinema hollywoodiano aveva sbaragliato la concorrenza, riuscendo a conquistare il mondo con i suoi prodotti. In questo periodo, infatti, il cosiddetto “cinema hollywoodiano classico” si era imposto come economicamente più forte e raggiungendo standard qualitativi molto elevati; basta pensare come in Italia, nel ’46, i film importati da Hollywood sono oltre 600, con l’84% degli incassi, contro i 62 prodotti nazionali, che raggiungono solo il 10% degli incassi.

Significativo è anche il fatto che l’industria cinematografica americana, complice la mancanza di libertà espressiva imposta dei regimi autoritari, attirava i migliori cineasti europei, come accadde, per esempio, per Fritz Lang. In Europa, il solo cinema francese, seppur notevolmente staccato da quello d’oltreoceano in termini di numero di produzioni e di budget, riesce a imporsi sugli altri cinema nazionali; scrive André Bazin:

“In ogni caso la produzione americana e quella francese sono sufficienti per definire il cinema parlato d’anteguerra come un’arte pervenuta visibilmente all’equilibrio e alla maturità. Innanzi tutto per quanto riguarda il fondo: grandi generi dalle regole ben elaborate capaci di piacere al più vasto pubblico internazionale e d’interessare anche una élite colta purché a priori non ostile al cinema. Inoltre per quanto riguarda la forma: degli stili di fotografia e di découpage perfettamente chiari e conformi al loro soggetto; una totale riconciliazione dell’immagine e del suono.”

La descrizione che ci consegna Bazin è quella di un’arte giunta a completa maturazione,  compiuta, forse addirittura giunta alla stasi della perfezione. È giunto a questo punto, però, che il cinema hollywoodiano classico comincia il suo declino; se, infatti, si continueranno a produrre film caratterizzati dal découpage classico fino a tutti gli anni ’60, altresì bisogna notare come già dal secondo dopoguerra il ribollire delle istanze innovative cominci a farsi sentire in Europa.

Nell’Italia piegata dalla guerra, si sviluppa infatti la stagione neorealista, che, con la sua ricerca di verità, comincerà a scardinare i canoni della rigida grammatica filmica imperante: attori quasi improvvisati, riprese in strada, reintroduzione del piano-sequenza, tutte caratteristiche in controtendenza rispetto alla règle du jeu (utilizzando impropriamente il titolo di Renoir) imperante.

Si sviluppa contemporaneamente un certo cinema d’autore, slegato da scuole o movimenti come può essere quello neorealista, che grazie a cineasti di valore assoluto e riprendendo stilemi tipici di alcuni outsider della stagione cinematografica precedente, vedasi Von Stronheim, Orson Welles, Billy Wilder o il già citato Renoir, ha prodotto opere di incredibile valore.

“Ritengo che giustamente si possa sostenere che l’origine del cinema del dopoguerra in rapporto a quello del 1939 sta nel promovimento di certe produzioni nazionali e in particolare nel sorgere sfolgorante del cinema italiano.” (Bazin)

Rossellini, De Sica e soprattutto Visconti, per quanto riguarda il neorealismo, Buñuel o Bergman, con percorsi più personali, sono tutti registi che iniziano un rinnovamento che sfocerà, nel giro di un decennio, nella ribellione programmatica propria della Nouvelle vague.

La “nuova ondata”, quasi un riflusso verso canoni prestabiliti che ormai non rivestono più il ruolo paradigmatico che spettava loro in passato, un vero e proprio spartiacque nella storia del cinema, capace di abbattere vecchi miti e di crearne di nuovi, di fare scuola nel distruggere la scolastica; figlia di cineasti che prima erano stati critici e teorici, i quali continuano a fare critica con il loro stesso cinema, fra tutti i nomi che hanno operato in questa stagione, come si è già detto, uno spicca su tutti – quello di Jean-Luc Godard, che nel 1960 con A bout de souffle, suo lungometraggio d’esordio, firma il vero, grande manifesto della Nouvelle vague francese.

Abbiamo finora parlato di cinema hollywoodiano classico, ma bisogna,  prima di continuare, capire meglio in che cosa si sostanzia questa definizione. Si è già detto qualcosa in merito, ma  vediamo, attraverso le parole di André Bazin, di chiarire innanzitutto cosa si intende per “classico”:

Si ha la sensazione di un’arte che ha trovato il suo equilibrio perfetto, la sua forma di espressione ideale e, reciprocamente, vi si ammirano dei temi drammatici e morali ai quali il cinema non ha forse dato una completa esistenza ma che ha almeno promosso a una grandezza, a una efficacia artistica che non avrebbero conosciuto senza di esso. In breve, tutti i caratteri di un’arte ‹‹classica››.

La compiutezza qui descritta era stata raggiunta attraverso la definizione di un corpus di regole che sono state raggruppate sotto il nome di découpage classico, il vero mezzo che permetteva al cinema narrativo americano di compiersi.

Infatti, seguendo le tre direttive cardine di motivazione, chiarezza e drammatizzazione, si era giunti alla definizione dei canoni che permettessero l’abbandono dello spettatore al fluire della storia, tanto da abolire la percezione della finzione filmica e la sospensione della consapevolezza, in modo da favorire l’immedesimarsi nella vicenda e l’assorbimento nella diegesi. Ma nella pratica, quali erano le regole da seguire?

Bisognava per prima cosa eliminare tutto ciò che evidenziava la finzione del tutto, non si doveva quindi mostrare la troupe, i macchinari , era proibito lo sguardo in camera, così come gli attori non devano mai uscire di scena sul davanti, così da far intuire la posizione della macchina da presa.

Era però il montaggio la parte più importante del lavoro; solo, infatti, suddividendo la scena in molte inquadrature e rimontandole adeguatamente che si riusciva a ricreare il continuum spazio-temporale in grado di catturare e di far immedesimare lo spettatore e di rendere invisibile il montaggio stesso (si parla per l’appunto di montaggio invisibile).

Ecco dunque il découpage, la segmentazione della scena che viene ricomposta in un tutto organico dal montaggio. Scrive Giaime Alonge su questo argomento:

L’articolazione dell’azione in diversi piani , infatti, permette di guidare l’attenzione dello spettatore sui passaggi salienti, magari ritardando la comparsa di un elemento importante, che viene mostrato solo a un certo punto, con un effetto sorpresa, ed eliminando tutto ciò che non è funzionale alla progressione del  racconto.”

In quest’ottica era stata sviluppata una strategia convenzionale dei raccordi, tale da attenuare e mascherare i tagli e da rafforzare l’idea di continuità, da qui l’idea dei raccordi di sguardo, di movimento, di posizione, di direzione, ecc.

Questi accorgimenti andavano a comporre la sintassi del film all’interno di una vera e propria grammatica, così come venivano chiamate queste regole dagli addetti ai lavori al tempo del cinema classico.

Si è già detto di come ci fossero comunque personalità che non potevano essere racchiuse da questa summa di regole, registi di grande valore, firmatari di grandi capolavori, ma che “infrangevano” le regole o perché avevano cominciato con il film muto, o perché volevano omaggiarlo.

Emblematico in tal senso è lo sguardo in macchina di Norma Desmond (aka Gloria Swanson) alla fine di Viale del tramonto di Billy Wilder, film incentrato sul divismo e sul cinema muto, dove questo gesto assume semplicemente il valore di una citazione.

Le innovazioni, quindi, prendono sì spunto anche da questi cineasti, ma modificandone radicalmente l’essenza, dando alle “infrazioni” del codice un valore ontologico proprio, ed è nella ridefinizione dell’infrazione che entra in gioco la Nouvelle vague.

L’inizio della Nouvelle vague si fa convenzionalmente coincidere con la proiezione alFestival di Cannes del ’59 de I quattrocento colpi, di Truffaut, e Hiroshima, mon amour, di Resnais; è logicamente una cesura arbitraria, utilizzata per comodità storiografica, ma comunque calzante, data la novità portata da queste due opere.

Dopo l’uscita nelle sale, infatti, subito si scatena il dibattito intorno a questa nuova ondata, fra sostenitori e detrattori, fra chi sottolinea la ventata di rinnovamento portata da questo nuovo cinema in fatto di temi e di stilemi e chi, invece, evidenzia la poca profondità e l’estraneità ai grandi fatti contemporanei (era il tempo della guerra d’Algeria).

Si è posta come data iniziale il ’59, ma il cambiamento inizia molto prima, col lavoro critico svolto dalle personalità riunite attorno ai Cahiers du cinéma da Doniol-Valcroze  e da Andrè Bazin; qui vengono seminate le problematiche teoriche, circa anche l’ontologia stessa del cinema, che daranno luogo alle proposte della Nouvelle vague.

Lavorando in stretto rapporto, i critici che diventeranno cineasti, fanno proprio il subbuglio generazionale che inizia a emergere, e proprio questo ribollire è il terreno comune su cui opereranno, agendo sempre però secondo linee personali, senza un sistema programmato e condiviso, motivo per cui non si può parlare di una vera e propria scuola, ma più propriamente di un clima culturale indirizzato verso il rinnovamento del cinema.

“La Nouvelle vague non si può definire. Era una sorta di contenitore dove ci stava dentro tutto.”

Queste le parole di un protagonista di quel periodo come Claude Chabrol, per far capire come da un comune terreno fertile sia stata, in definitiva, la volontà del singolo regista a far da padrone. Scrive Giorgio Tinazzi:

Un’altra precisazione appare conveniente. Sarebbe almeno inopportuno identificare la nouvelle vague con il cinema francese di qualità degli anni Sessanta: se non altro perché quello sforzo di rinnovamento si può considerare esaurito a metà del decennio, quando ormai contano solo i percorsi individuali dei singoli registi.”

Una rivoluzione sostanziale, dunque, la Nouvelle vague, che ha però esiti diversi, o meglio, più o meno apertamente trasgressivi.

Si arriva a questo punto obbligatoriamente a parlare di A bout de souffle, il vero e proprio trauma cinematografico, leggero, divertito, sferzante manifesto di un Godard insofferente al cinema classico e più grande fautore del décadrage.

Uscito nel ’60, il film si riallaccia per la trama al noir americano, ma poco viene mantenuto del genere canonico, si perdono le ambientazioni cupe, la suspance, la storia serrata, a favore di ambientazione luminose e open air, di una storia esile, frammentata da inserti che poco hanno a che vedere con il proseguo della vicenda; la narrazione si apre con Michel, il protagonista, (Jean-Paul Belmondo) che ruba un’auto a Marsiglia, parte verso Parigi, ma viene inseguito da un poliziotto per eccesso di velocità. Si da alla fuga, ma per non venire arrestato uccide il poliziotto.

Arrivato nella capitale francese cerca di terminare alcuni affari in sospeso, prima di partire per l’Italia, ma ritrova Patricia (Jean Seberg), suo vecchio amore mai dimenticato. Cerca di convincerla a seguirlo, ma lei è titubante, conscia del fatto che lui sia un delinquente, e alla fine decide di denunciarlo per costringerlo a scappare; segue un piccolo inseguimento tra Michel e la polizia, durante il quale lui viene ucciso sotto gli occhi di lei.

Vicenda molto semplice quindi, tant’è che spesso la narrazione si interrompe, dando spazio a momenti morti, dove non succede nulla o quasi: conversazioni banali e per nulla significative ai fini della storia, che riportano però una maggior fedeltà realistica rispetto ai dialoghi costruiti del cinema classico.

Le stesse inquadrature che dovrebbero far proseguire il racconto, sembrano essere snobbate dal regista, che relega loro in secondo piano rispetto alle lunghe sequenza degli inserti. Già dalle battute d’avvio, infatti vediamo la velocità con cui ci vengono presentati il furto d’auto e l’uccisione del poliziotto, mentre molto si indugia sul viaggio di Michel attraverso le campagne francesi, con il protagonista che sembra discorrere col pubblico stesso e al quale si rivolge direttamente, con lo sguardo in macchina, dicendo:

“Si vous n’aimez pas la mer, si vous n’aimez pas la montagne, si vous n’aimez pas la ville, aller vous faire foutre!”

sfatando un vero e proprio tabù e rivelando platealmente la falsità e l’irrealtà della rappresentazione. Provocatorio, divertito e divertente, il personaggio stesso di Michel è la parodia dei grandi attori (Humphrey Bogart) e del noir americano, tanto da giocare con la pistola trovata nel cruscotto dell’auto rubata.

In queste battute d’avvio, Godard mostra anche un nuovo stilema, un montaggio caotico e disarticolato, irregolare, sottolineato dagli stessi salti della colonna sonora. Da antologia è la sequenza dell’uccisione del poliziotto; inizialmente troviamo Michel sulla destra dell’inquadratura, rivolto verso sinistra, da dove arriva il poliziotto, ma nell’inquadratura successiva, senza curarsi del sistema dello spazio a 180⁰, Godard riprende Belmondo mentre guarda verso destra.

Questa agire nel cinema classico era definito come scavalcamento di campo, ed era considerato un vero e proprio errore di raccordo, in quanto sfalsava la percezione dello spettatore.

Ma le bizzarrie non sono finite, durante l’azione, infatti, il regista spesso indugia sul particolare, facendo perdere di vista ciò che sta accadendo: così, mentre si vede prima il cappello di Michel, poi scendendo, la testa, il braccio, e la mano che impugna la pistola, non si sa cosa faccia l’inseguitore; ricompare solo dopo lo sparo, quando lo si vede cadere fra gli alberi, senza sapere come sia arrivato lì.

Si è quindi di fronte ad una vera e propria antologia di “errori” che il regista offre per urlare in faccia allo spettatore la finzione filmica, come esemplifica anche il larghissimo uso di jump-cut, introdotto proprio da Godard.

Questi, da buon allievo di Bazin, non si esime dall’utilizzare una delle tecniche forse più care all’amico, quella del piano-sequenza, del quale da un magistrale esempio con la scena della passeggiata di Belmondo e della Seberg per gli Champs Elisées, durante la quale i due protagonisti vengono ripresi prima di spalle con la macchina da presa che segue e dopo che sono girati, di fronte con la macchina che indietreggia.

In un normale film classico, la conversazione sarebbe stata ripresa con il campo-controcampo, mentre in questo caso Godard utilizza il piano-sequenza (anche se forse in questo caso è meglio parlare di long take, visto che l’azione non si esaurisce completamente in questa inquadratura) per rendere una maggiore realtà.

Volta ad un maggior realismo è tutta la realizzazione del film, mai in studio, ma sempre in luoghi reali, dalle strade di campagna: è lo stesso Coutard, direttore stesso della fotografia, a riprendere Jean-Paul Belmondo dal sedile posteriore dell’auto, a quelle di Parigi, all’appartamento di Patricia.

Interessante è la scena che si svolge nell’alloggio della protagonista, in quanto anche in questo caso la scena è girata tutta con luce naturale, con la luce che proviene o dai veri lampadari presenti nella stanza o da una finestra che da sull’esterno.

Proprio questa finestra aveva creato non pochi problemi a Coutard, il quale dovette studiare attentamente con Godard gli spostamenti di macchina per far sì che i raggi solari non disturbassero l’obiettivo. Tutto questo per consentire una resa più autentica.

Si giunge qui ad una serie di paradossi; in primo luogo quello riguardante il montaggio classico ed il piano-sequenza, infatti se il primo, fittizio e costruito, risulta invisibile allo spettatore, il secondo, giocoforza più realistico, in quanto presa diretta di ciò che è davanti alla mdp, viene invece percepito come straniante da chi guarda.

Il secondo paradosso lo si ritrova all’interno di questo stesso film, dove si vede convivere la programmatica infrazione della quarta parete e la pretesa di realismo del piano-sequenza. Per organizzare questi apparenti paradossi e ricondurli ad una qualche ratio, occorre rifarsi una volta di più agli studi condotti da Bazin; questi infatti teorizza due diverse estetiche, dell’immagine e della realtà.

Il critico francese applica queste categorie al cinema dal ’20 al ’40, scrivendo egli negli anni ’50, ma, come si è già detto in precedenza, i suoi scritti fanno scuola, e soprattutto fra i registi della Nouvelle vague molto peso viene dato alle sue ricerche teoriche, tanto da influenzare il clima del periodo e la produzione stessa dei film. Per “immagine” Bazin intende la rappresentazione tout court, sintesi della composizione dell’immagine e del montaggio, connotata dalla verisimiglianza.

“La suddivisione in inquadrature non ha altro scopo che quello di analizzare l’avvenimento secondo la logica materiale o drammatica della scena.”

La rappresentazione così intesa, riporta qualcosa di preconfezionato, che necessita solo di essere usato; immedesimazione, partecipazione, sì, ma solamente passiva:

“È la sua logica a rendere questa analisi insensibile; lo spirito dello spettatore condivide naturalmente i punti di vista che gli propone il regista poiché sono giustificati dalla geografia e dallo spostamento dell’interesse drammatico. […] Il senso non sta nell’immagine; ne è l’ombra proiettata, per mezzo del montaggio, sul piano di coscienza dello spettatore.”

I registi che si rifanno alla realtà hanno invece come maggior preoccupazione quella di riportare un dato spesso incompleto o sovrabbondante, grezzo, ma più autentico, per quanto questo termine vada ben soppesato e inteso non in senso assoluto; è questo il motivo che spinge Godard in A bout de souffle prima a sottolineare la finzione della rappresentazione e poi a fornirci del materiale il più vero possibile, che starà poi allo spettatore analizzare. Una regia che stia al limite fra documentario e fiction,

“nel quale l’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela.”

Si può ora rileggere la prima citazione esposta per capire come questa abbia un respiro molto ampio, e come la si possa intendere in due differenti maniere, a seconda che la si legga dal punto di vista di un’esteta dell’immagine/rappresentazione: positivamente, i nostri desideri esemplificati in un modo che può essere vero; o dal punto di vista di un’esteta della realtà: negativamente, i nostri desideri di ricerca dell’autentico attraverso l’eliminazione del superfluo.

Tirando le fila del discorso, si può notare come effettivamente la disamina di Bazin sia alla base di film come A bout de souffle e di come questa deriva dall’aurea classicità abbia apportato al cinema delle modifiche molto più sostanziali di quanto si pensi.

“Chabrol ha ragione, quel conta non è il messaggio, è lo sguardo.”

Il cinema classico poggiava sulla convinzione che la storia dovesse prodursi autonomamente, senza interventi esterni ad essa, da se stessa, utilizzando un concetto dimimesis come verisimiglianza che, espresso per la prima volta in da Aristotele, ha tenuto banco nel dibattito estetico fino all’avvento della modernità.

La poietica aristotelicamente intesa risulta ancora fondante nel cinema classico, quantomeno concettualmente, anche se logicamente i precetti di unità di spazio, tempo e azione risultavano obsoleti già allora,  posandosi infatti su una “imitazione della natura in quanto attività produttiva organizzata”, secondo le parole di Vattimo.

Con gli studi soprattutto della cosiddetta scuola di Francoforte, però, si sviluppa una visione dell’opera che, partendo dall’introduzione del concetto di shock nell’estetica, ossia di sistematica e programmatica infrazione dei tabù, arriva a ridefinire l’opera d’arte come componente eversiva, capace di scardinare la prassi e di ribaltare il canone.

La Nouvelle vague è figlia anche di queste riflessioni, in un clima che spingeva la cultura occidentale alla presa di coscienza e ad un’attenta analisi di se stessa. Per Godard in particolare si è detto che fare cinema è parlare di cinema, tutti i suoi film sono riflessioni sul modo stesso di fare film e quindi metacinema; si possono citare oltre ad A bout de souffleVivre sa vieLe MeprisBand à part.

“Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri.”

Fare cinema in questa nuova ottica consiste nel ridefinire continuamente e senza requie le regole di un genere fluido e cangiante, e farlo così divenire continuamente avanguardia.