“C’era una volta in America” (“Once Upon a Time in America”), tratto dal romanzo autobiografico “The Hoods” (1952) del criminale statunitense Harry Grey, si configura fin dall’inizio della sua interminabile gestazione, come un progetto di rara ambizione, vera e propria epopea non solo sul grande schermo, ma anche nelle fasi della sua realizzazione.
Nonostante la mite accoglienza pubblico immediatamente successiva alla sua uscita nelle sale, la pellicola assume oggi un valore eccezionale, caposaldo del gangster moviecostantemente osannato da pubblico e critica, nonché fonte primaria per la tendenza citazionista del cinema contemporaneo.
Il suo autore Sergio Leone concepisce il film relativamente presto, nell’arco della sua carriera cinematografica, sicuramente in un momento in cui mancano mezzi e finanziamenti adeguati per una simile impresa registica. Rimandato a data da destinarsi, quando finalmente vengono ultimate le riprese, i veri problemi iniziano a porsi in fase di montaggio.
Se l’Italia si presta relativamente a soddisfare le pretese del regista romano, la distribuzione statunitense opera una vera e propria mutilazione della pellicola, a seguito della quale Leone stesso minaccerà il ritiro del proprio nome dal progetto, ormai ad un passo dal compimento, di fronte ad una eventuale mancanza di collaborazione da parte delle major americane coinvolte nella postproduzione del suo capolavoro.
Un girato di dieci ore ridotto eccezionalmente a sei (con l’intento di ricavarne capitoli distinti, come era già avvenuto con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, 1972), viene ulteriormente tagliato fino a toccare a stento le quattro ore, travisando soprattutto il quadro cronologico sul quale si innesta l’equilibrio dell’intera narrazione.
Il film risulta essere infatti un lamento nostalgico del protagonista David “Noodles” Aaronson (Robert De Niro), che, divenuto ormai una stanca e tramontata leggenda della malavita newyorkese, ripercorre la propria travagliata esistenza tramite ossessive rievocazioni destate tanto da situazioni quanto dal ritrovamento di semplici oggetti (una fotografia appesa al muro, un manifesto alla stazione), creando un effetto di sovrapposizione temporale continua e sistematica.
“C’era una volta in America” è dunque essenzialmente un amaro viaggio nei suoi ricordi, che molto spesso tendono a collocarsi in un’atmosfera incerta e fuligginosa in cui la realtà è separata dall’esperienza onirica da una linea sottilissima.
Non a caso gli interpreti della così detta “teoria del sogno” (che a tratti sembra essere avvalorata da alcune dichiarazioni di Leone stesso) leggono nel framestop finale, che ritrae Noodles sorridente e in preda ai fumi dell’oppio, come un sollievo dopo il risveglio da un brutto sogno, come se tutto fosse avvenuto solamente nella sua immaginazione.
Una simile impostazione, frammentata, a tratti volutamente confusa, ricca di rimandi e citazioni interne, si configura sicuramente oltremodo ambiziosa al momento dell’uscita della pellicola nelle sale, ed è probabilmente questa la causa essenziale dell’insuccesso di pubblico poi ampiamente e totalmente ridimensionato.
I protagonisti del film si muovono in una New York preda della malavita e della dilagante corruzione politica, vivendone momenti critici per l’intera storia americana, in particolare inizio e fine del proibizionismo, che segna il battesimo e il tramonto dell’attività illegale di Noodles e della sua banda, capitanata assieme a lui dall’amico di una vita Max (James Woods).
Leone proietta lo spettatore al centro di una situazione parzialmente ignorata dal gangster movie di quel periodo, ovvero l’ambiente malavitoso ebraico del Lower East Side newyorkese, quartiere povero e caotico, che il regista romano sembra metaforicamente accostare a quella Roma trasteverina la cui realtà egli aveva vissuto in gioventù, stendendo persino, a diciannove anni, un soggetto parzialmente autobiografico, intitolato “Viale Glorioso”, mai realizzato per una decisiva coincidenza d’intenti: Federico Fellini realizza nel 1953 il proprio progetto intitolato “I Vitelloni”, che a Leone sembra prendere le mosse dagli stessi presupposti del proprio lavoro. Il progetto cade dunque per la troppa somiglianza con quello del collega, anche se sembra essere rievocato nostalgicamente nella pellicola in questione, che fa del tema della nostalgia, fondamentale nell’opera del regista, vero e proprio elemento portante della narrazione.
La colonna sonora struggente del maestro Ennio Morricone fa certamente la sua parte, da questo punto di vista. Recriminazioni, rivalità, ricordi positivi e negativi ritornano incessantemente in ogni pensiero dell’affranto protagonista, che si trova, in ultima istanza, titanico ma estremamente debole di fronte allo scorrere del tempo.
Noodles trascorre la propria vita osservandola, raramente agendo in modo forte e definitivo per affermare la propria supremazia, i propri valori, tanto da scegliere l’esilio volontario per ben trentacinque anni, dopo la morte (o presunta tale) dei propri collaboratori.
E’ in generale la figura maschile ad uscire particolarmente svalutata dal film. I gangster protagonisti sono uomini giovani e apparentemente padroni del loro quartiere, se non dei giri loschi dell’intera città, ma si trovano ad essere tutti perdenti, in un modo o nell’altro. Noodles non è che il sommo perdente dell’intero svolgersi degli eventi, impotente anche di fronte ai colpi di scena finali.
Quello di Sergio Leone è un cinema che scandaglia a fondo la psiche dell’uomo, procedendo per gradi attraverso le singole pellicole, con la pretesa di arrivare ad un quadro completo proprio con l’ultimo atto della sua filmografia. Questo causa tuttavia un generale disinteresse di fondo per la figura femminile, in particolare nei primi western.
L’intera “trilogia del dollaro” (“Per un pugno di dollari”, 1964 – “Per qualche dollaro in più, 1965 – “Il buono, il brutto e il cattivo”, 1966), che precede quella “del tempo” (“C’era una volta il West”, 1968 – “Giù la testa”, 1971 – “C’era una volta in America”, 1984) è priva quasi completamente di personaggi femminili, in ogni caso appena tratteggiati a livello caratteriale, e sempre in funzione di un uomo generalmente brutale e sbrigativo, depositario di ogni istanza caratteriale degna di nota.
E’ Claudia Cardinale in “C’era una volta il West” ad aprire alla donna in quanto vera protagonista, anche se, nell’ultimo western canonico di Sergio Leone, in primo piano è posta la lotta tra i due titani Armonica (Charles Bronson) e Frank (Henry Fonda), simboli dell’ormai defunto “selvaggio West”, che vede l’ingresso prepotente della modernità borghese tramite il lento ma inesorabile procedere della costruzione della linea ferroviaria attraverso la Monument Valley. Jill Bain, interpretata dalla Cardinale, è dunque finalmente al centro di molte scene, ma in secondo piano se si considerano le tematiche che Leone intende far risaltare con la pellicola.
Tutto cambia radicalmente in “C’era una volta in America”: lo spettatore si trova di fronte ad una donna che stravolge completamente il rapporto di forza che si era andato costruendo nei film precedenti. Dove Noodles, eroe maschile, non ha successo, ovvero nell’opera di emancipazione dalla logica chiusa e proibitiva della povertà dei sobborghi in cui vive, a risultare vincente con una caparbietà disarmante è invece l’amore di tutta la sua vita, Deborah.
Fin dalle prove solitarie dei suoi passi di danza nel retrobottega del padre, la protagonista femminile mostra di avere ben chiaro il proprio obiettivo, nonché la dose di freddezza e di calcolo puramente individualistico necessaria a raggiungerlo.
L’amarezza esistenziale proposta dal film è proprio incarnata dal carattere duro e quasi inumano della donna, costantemente in lotta con l’ambiente nel quale fatalmente è stata costretta a crescere, e nel quale ha imparato che il successo è salvezza e vita. Per ottenerlo non si può perdere tempo, nemmeno per amare.
Pur nutrendo sentimenti genuini nei confronti di Noodles, infatti, Deborah avrà sempre ben chiara la necessità di porli sempre in secondo piano rispetto alla carriera che è decisa a conquistarsi. La feroce violenza sessuale subita proprio da lui dopo l’ennesimo, drastico rifiuto, è apoteosi della pochezza di un uomo che non è in grado nemmeno di caricare tale gesto di sentimenti quali crudeltà o rabbia, ma che si fa interprete di un gesto velleitario, isterico e teso ad una vana e patetica affermazione di una dominazione ormai perduta.
Quello messo in scena da Leone è dunque un mondo spietato, in cui l’aura di morte viene posta in analogia con la sporcizia e il puzzo imperanti nei sudici sobborghi di New York, un universo sommamente ingiusto, ambiguo, e letteralmente disgustoso, in contrasto col tono epico e commovente che Leone assai spesso conferisce alla narrazione.
“C’era una volta in America”, oltre che per le numerose citazioni inserite dal suo autore, ha assunto negli anni popolarità sempre crescente grazie a battute divenute eccezionalmente celebri e scene di rara drammaticità.
In particolare, una per tutte, la sequenza che vede Deborah adolescente recitare a Noodles una versione “rivisitata” del Cantico dei Cantici, nel retrobottega del negozio nel quale ha permesso al ragazzo di introdursi per raggiungerla.
“Il mio diletto è candido e rosato, le sue guance sono oro sopraffino, il suo collo è uno stelo soavissimo anche se non lo lava dalla Pasqua passata … I suoi occhi sono occhi di colomba, il suo corpo è risplendente avorio e le sue gambe sono due colonne di marmo … in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli. Egli è tutto una delizia ma sarà sempre un pezzente da due soldi, e perciò non sarà mai il mio diletto. Che peccato!”