“THIS IS A TRUE STORY. The events depicted in this film took place in Minnesota in 2006. At the request of the survivors, the names have been changed. Out of respect for the dead, the rest has been told exactly as it occurred.”
“Lou, la sai quella di quel tale che non potendosi permettere una targa personalizzata ha chiesto di cambiare il suo nome in J3L2404?” (Frances Mcdormand in Fargo)
Questa ultima citazione è la frase che meglio riesce a rendere l’idea di fondo di Fargo, film del 1996 dei fratelli Coen. La stessa frase coglie, nella sua semplice ironia, la tremenda e incredibile idea della vita che soggiace alle meschine disavventure di Jerry Lundegaard e dei personaggi collaterali della sua storia.
Fargo è un film perfetto in tutto e per tutto, dalla colonna sonora alla fotografia fino all’ordine meticoloso e destabilizzante con cui i due fratelli ci raccontano questa storia: una storia che, raccontata quasi come una favola, è un po’ la madre di tutte le storie (o almeno delle nostre storie).
I Coen, con una già matura maestria, ci plasmarono con Fargo il primo passo di un’epopea del ridicolo che accompagnerà, come basso a pedale, tutta la loro produzione successiva. Un primo passo che contiene già tutto però: un crocevia di racconti il cui senso latita costantemente, beffeggiandosi della umana stupidità, ostinata a trovare un significato alla vita.
La ricerca dell’uomo si concretizza nella stupidità, intesa come ostinazione contro il vuoto e dipinta con gli stessi caratteri del comico “torte in faccia” (questo è l’effettivo black humor dei Coen: non è un umorismo nero, è una tristezza sardonica senza compassione – il che è opportuno specificare, per non cadere nelle facili trappole dei moralismi).
Il risultato (per tutta la filmografia coeniana – ma restiamo su Fargo) è di un’opera così densa da essere vera, basata su fatti realmente accaduti (come propone irrisoria la scritta iniziale) – è la nostra storia, cioè tutte le storie.
Questo cappello, così brutalmente buttato giù, non può che svilire il tentativo di Noah Hawley di riproporre il film del ‘96 in una serie televisiva dall’omonimo titolo: Fargo (la cui prima stagione – che consta di 10 puntate – si è conclusa ieri sulle emittenti americane Fx).
Si badi: non è un remake o un trasposizione, si tratta bensì di un’opera a sé stante “liberamente ispirata a”. Quando però decidi di costruire una serie ispirata a, devi preventivare il peso che avrai sulle spalle, proporzionale all’entità dell’opera ispiratrice.
In questo senso l’idea di Hawley è stata quasi coraggiosa, accettata in fondo di buon grado dagli stessi Coen, produttori esecutivi del serial. Riproporre Fargo, in quest’opera (che in fondo costituisce un tv film di 10 ore complessive) significa compiere un’impresa in cui è facile cadere nel tranello della banalità piuttosto che della mancata comprensione del soggetto.
Il nostro regista però svicola abilmente dal problema qui posto: Fargo non sfiora (se non quasi accidentalmente) il soggetto del film originale: è una storia che dall’opera dei Coen trae solo l’ispirazione per i personaggi, il setting e il tono da humor nero (che questa volta è davvero black humor e non – come analizzato previamente – rammarico impietoso dell’ignoranza).
Fargo (serie tv) è ambientato non a Fargo: nei pressi, North Dakota, fra Duluth e Bemidji. Lester Nygaard (Martin Freeman) è un venditore di polizze sulla vita dipinto con i tipici e consolidati tratti del loser: un vestito che Freeman indossa con impeccabile perfezione.
Insoddisfatto dal lavoro, insoddisfatto dalla vita, mai premiato e mai vincitore di qualcosa, maltrattato dai conoscenti, odiato e repulso dalla grassa e insopportabile moglie – tutto prelude ad un omicidio insomma. Per puro caso fa le conoscenza di un tipo indistinto ma dallo sguardo gelido: non si sa da dove venga né chi sia.
Fatto sta che propone al nostro Lester di “fare il lavoro sporco per lui”, e di fare giustizia nei confronti di chi odia. Lester rifiuta categoricamente ma il nostro killer (un impeccabile Billy Bob Thornton) si adopera lo stesso: uccidendo l’ex bullo del liceo che continuava a maltrattare il signor Nygaard. Lester è in debito con il killer: e non solo per quel servizietto.
Disgraziatamente infatti, Lester prende coraggio (se così possiamo dire) e uccide la moglie a martellate, chiedendo poi l’aiuto del sicario. I destini dei due sono definitivamente legati dal sangue, e sarà compito della poliziotta Solverson sciogliere una matassa che andrà sempre di più ingarbugliandosi.
Chi conosce il film originale noterà come la trama del serial sia sostanzialmente differente. Sono moltissimi i rimandi all’opera ispiratrice, diffusi fra scene, locations o semplici battute. Tuttavia Howley – devo dire saggiamente, anche se a tratti in modo deludente – ha definitivamente spostato l’attenzione del soggetto dal coacervo insidioso di tematiche coeniane al thriller mozzafiato, aggiungendo qua e là dei motivi di riflessione sulla natura ferina dell’uomo.
L’antagonista interpretato da Thornton è il diavolo: un uomo lupo, senza pietà, senza freni, solo cosciente del suo interesse personale (probabilmente costruito sulla silhouette di Anton Chigur di No country for old man).
La riflessione su questo personaggio e della sua influenza riflessa sui protagonisti della vicenda (in particolare Lester) rappresenta il tema centrale dell’opera. A sprazzi, le poche tematiche postmoderne esistenzialiste (=coeniane) sfiorate dalla camera appaiono fuori luogo e devianti: perciò preferisco considerare questa serie, sotto ogni aspetto, come un prodotto sostanzialmente differente.
Lo iato che la mia coscienza impone è condizione necessaria per giudicare in modo distaccato la creazione di Howley: in questo senso essa appare come un film tv di impeccabile realizzazione dal punto di vista formale (colonna sonora e fotografia) ma soprattutto impreziosito dall’interpretazione da brivido degli attori protagonisti.
Freeman è incredibilmente in gamba a cavarsela con il suo personaggio, in una performance così intensa da destabilizzare. Thornton è Thornton: lapidario, freddo, temibile e alle volte spassoso – lo amerete.
In questo ultimo periodo di grosse produzioni per il piccolo schermo, rese uniche dal rigore formale (Breaking Bad, True Detective, House of Cards, ecc…) e dalle interpretazioni attoriali (Cranston, Spacey, McConnaughey, Cumberbatch, ecc..), Fargo si piazza con meritata lode come una delle produzioni più avvincenti, interessanti e accattivanti della stagione.
Analizzato e tenuto a freno il rammarico dei fan della pellicola originale (me compreso), il serial vi si manifesterà nella sua vivida espressività e nella sua ricercata emotività (ricordiamo resa possibile dalle performance attoriali in primis).
Null’altro da dire. È da vedere.