FILM D’AMORE E D’ANARCHIA – LA TENEREZZA E IL CORAGGIO DI UN’ITALIA PERDUTA

TORINO – Il rapporto fra il cinema italiano e la seconda guerra mondiale ha partorito alcune fra le pellicole più significative nella filmografia dei più grandi cineasti nostrani, i quali, attingendo a piene mani dalla corrente Neorealista, crearono opere destinate a far parte del nostro background culturale.

L’epopea disperata e struggente dell’uomo comune in Ladri di Biciclette di Vittorio de Sica, la disgrazia che colpisce la lotta partigiana in Roma città aperta di Roberto Rossellini, l’ossessione e la successiva disillusione per il sogno dorato del cinema in Bellissima di Luchino Visconti sono solo alcuni esempi della fiorente produzione di quegli anni; storie di uomini e donne alle prese con un passato dolorosamente indimenticabile e un presente disperato, che consegnano nelle mani di un futuro incerto il desiderio di una legittima libertà.

Nel 1973, lontano dai successi del cinema Neorealista, Lina Wertmuller in Film d’amore e d’anarchia (ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…”) racconta la guerra e l’oppressione fascista attraverso la piena espressione del suo immaginario, donando al grande schermo una storia d’amore, di lotta politica e di un’umanità antica e purtroppo dimenticata.

1932, Roma. Antonio Soffiantini, detto Tunin, è un partigiano lombardo che viene accolto nel bordello in via dei Fiori da Salomé, prostituta amante di un noto capo della Resistenza, per organizzare l’assassinio di Mussolini per mano sua. Antonio si innamora di Tripolina, una prostituta del bordello, mettendo a repentaglio l’attentato.

Il film si apre con l’uccisione di un compagno di Tunin per mano dei carabinieri. Il corpo, gettato fra gli sterpi in riva ad un fiume, e il successivo primissimo piano sugli occhi di Giancarlo Giannini inquadrano senza dubbi le motivazioni e le azioni del protagonista; l’ingiustizia subita, l’incredulo dolore e la voglia di riscatto attraversano lo sguardo di Antonio, il quale sparuto e impreparato si trova nella stazione di Roma, armato di una sola valigia e di un segreto pericoloso e potenzialmente letale.

L’uomo giunge quindi al bordello, dove verrà presentato come “il cugino” di Salomé. Lo spettatore viene quindi catapultato nella routine grottesca, rumorosa e sottilmente malinconica della casa di tolleranza.

La regista dipinge con colori vivaci e felliniani le vite e i caratteri di queste donne di strada, accentuando il loro passato colorando le loro voci di accenti diversi, che mischiandosi tra loro descrivono un’Italia ricca di storia e di tradizione, capace di lasciarsi contagiare dalle proprie culture senza paura di smarrirsi.

Le donne raccontano e si raccontano attraverso canti popolari, talvolta struggenti e talvolta allegri, ballando per le stanze del bordello ebbre di tristezza e della consapevolezza di una vita che non hanno potuto scegliere.

Il film si articola negli sguardi degli attori, che parlano senza bisogno di parole; Antonio e Tripolina si innamorano guardandosi, sotto lo sguardo vigile e rassegnato di Salomé, divisa fra dovere civile e umana compassione.

La donna, consapevole del loro amore e affezionata ad Antonio, non riesce ad accettare a cuore leggero che l’uomo si impegni nella missione suicida di uccidere il Duce. Cerca infatti di scuoterlo e di disilludere lei, ma senza riuscirci. I due consumeranno il loro amore durante una gita in campagna, organizzata da un cliente fisso di Salomé, il gerarca Spatoletti.

Quest’ultimo, stereotipo del fascista rozzo e ignorante, sarà testimone del primo scoppio d’ira di Antonio, il quale dietro una maschera mite e sottomessa nasconde una rabbia cieca e dolorosamente distruttiva.

In questo litigio, che preannuncia la totale perdita di controllo del personaggio sul finale del film che inevitabilmente lo porterà alla morte, Antonio sfoga la frustrazione di un cittadino costretto a vivere in prigionia, censurando ogni bisogno naturale d’espressione e di libertà, sotto il peso soffocante di una dittatura che inneggia alla spersonalizzazione e alla violenza.

L’uomo, partigiano non per scelta ma per necessità, raccoglie in sé le paure e le speranza del popolo italiano del tempo, pronto ad immolarsi per la guerra di tutti e di nessuno per provare al mondo e a sé stesso una virilità dettata dal coraggio disperato di ribellarsi all’oppressore.

Ciò che colpisce di più nel film della Wertmuller, è lo spazio che la storia stessa e la sensibilità registica regalano alla tenerezza. L’audacia miserabile di Tunin provoca nello spettatore una compassione e una forte empatia per il suo sentire, come la dolcezza con cui si rivolge alla sua Tripolina, consapevole della fuggevolezza dei loro momenti insieme.

Le tacite carezze, i vezzeggiativi e la cura che l’uomo regala alla sua fragile compagna raccontano un’umanità che supera ogni guerra e ogni impresa politica. I personaggi del film sono uomini e donne prima di essere partigiani, eroi e puttane. Combattono per vivere e morire come esseri umani e non come ingranaggi di un sistema, pedine di un folle piano imperialista.

Le musiche di Nino Rota e le magistrali interpretazioni dei protagonisti (Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in ovvio stato di grazia) rendono la pellicola ancora più grande e significativa, capace di raccontare un’epoca così discussa da un’ulteriore e nuovo punto di vista.

La citazione di Pietro Malatesta che conclude il film delinea la poetica dell’opera e scinde senza fraintendimenti l’atto dalla motivazione dei gesti raccontati, riassumendo perfettamente un’esaustiva riflessione su quei tempi terribili. Né vincitori né vinti, solo sconfitti, ma con la consapevolezza di ciò che è stato e con la volontà che non accada più.

 «Voglio ripetere il mio orrore per attentati che oltre che essere cattivi in sé sono stupidi perché nuocciono alla causa che dovrebbero servire… Ma quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi… e saranno celebrati il giorno in cui si dimenticherà il fatto brutale per ricordare solo l’idea che li illuminò e il martirio che li rese sacri.»