Il biopic, formula filmica particolarmente in voga negli ultimi anni (dal malinconico e patinato Marylin all’irriverente e geniale Bronson) cerca di delineare figure indimenticabili o ingiustamente poco celebrate attraverso la pellicola, rendendo un nuovo ritratto delle loro personalità, accontentando gli appassionati e perché no, far cambiare idea ai detrattori.
Fur di Steven Shainberg (regista del riuscitissimo Secretary) regala al pubblico un “ritratto immaginario” (così reca il sottotitolo del film) di Diane Arbus, fotografa newyorkese simbolo dell’innovazione della fotografia statunitense degli anni ’60 con sensibilità dolente e affascinata.
Diane, figlia di una ricca famiglia borghese del Greenwich Village, lavora con il marito Allan, fotografo per le principali riviste di moda americane.
Anche Diane è appassionata di fotografia e quando incontra Lionel, suo nuovo vicino di casa affetto da una rara forma di ipertricosi che ricopre di una fitta peluria ogni parte del suo corpo, trova attraverso di lui quella parte di mondo che ha sempre desiderato immortalare nelle sue opere.
L’opera di Shainberg parla di metamorfosi, dell’estrema forma di mutamento del corpo e dell’anima per opera della fantasia e dell’amore.
La protagonista, intrappolata e oppressa da una rigida e bigotta morale borghese, soffoca la sua vena creativa uniformandosi all’estro modaiolo del marito e all’educazione repressiva dei genitori, che la vorrebbero moglie e madre modello.
Lionel, con la sua pericolosa e affascinante e pericolosa diversità, le offre un viaggio senza ritorno verso la libertà di costumi ed emozioni, slegandola dal doloroso e limitante giogo della sua vita.
Diane scopre se stessa attraverso la visione distorta e bizzarra dei “freaks”, borderline costretti ai margini della società a causa delle loro malformazioni fisiche ed emotive, capaci però di un’umanità dolce, disarmante e assoluta.
Loro infatti accolgono Diane senza paure o pregiudizi, considerandola una di loro sin da subito, grazie alla sua profonda sensibilità e alla smaliziata curiosità che dimostra per le loro vite.
Tuttavia, la libertà ha un prezzo; la donna viene piano piano allontanata dalla sua famiglia, scandalizzata e offesa dalle sue nuove frequentazioni; Diane si ritrova dunque sola con la nuova consapevolezza di se stessa, la sua ritrovata creatività e il suo amore per Lionel.
L’intero film attinge a piene mani dall’immaginario Lynchiano, particolarmente vicino all’idea della Arbus per quanto riguarda l’eccentricità del genere umano. Tuttavia lo stile registico si mantiene nei binari del noir e nel melò, senza eccedere in virtuosismi.
La fotografia accompagna la storia con garbo ed eleganza, prediligendo i toni dell’azzurro. La storia, seppur romanzata, coinvolge lo spettatore fino in fondo, favorendo l’immedesimazione con la protagonista, la sua crescita e il suo dividersi fra il dovere e il piacere.
Nicole Kidman dona alla Arbus grazia e fragilità, dolore palpabile e, nel finale, una dolce rassegnazione e pura pace interiore di chi ha conosciuto l’amore per se stessi e per l’umanità intera, in tutte le sue contraddizioni.