LA REGINA MARGOT: IL RITRATTO DEL POTERE

Tratto dall’omonimo romanzo di Alexandre Dumas padre pubblicato nel 1845, il film diretto da Patrice Chéreau appartiene a pieno titolo al genere del dramma storico.

Ambientato nella corte francese nel mezzo delle guerre di religione del XVI secolo, è un ritratto, inquietante ed avvincente allo stesso tempo, di una famiglia d’eccezione, quella regnante dei Valois: dominatrice dei destini dei mezza Europa e al suo interno dominata dalla figura matriarcale (e terribile, nel film) di Caterina de’ Medici (un’austera e gelida Virna Lisi).

La regina madre, propendendo in un primo momento per una politica di composizione del conflitto tra protestanti e cattolici, aveva combinato l’unione della figlia Margot (Isabelle Adjani) con Enrico di Borbone e di Navarra (Daniel Auteuil), per poi appoggiare invece l’ala estrema della fazione cattolica, guidata dal Conte di Guisa (Miguel Bosé).

Seguendo liberamente il precipitare degli eventi storici che culminerà nel massacro dei protestanti  la notte di San Bartolomeo (1572), la trama addensa una miriade di personaggi maggiori e minori, reitera temi, gesti e situazioni in un susseguirsi inesorabile di uccisioni, tradimenti e vendette efferate, il tutto all’insegna della morte, del disfacimento e del senso della fine imminente.

Senza compiacimento né compromessi ma con una sincerità disarmante: non c’è schermo tra lo spettatore e quel che gli viene messo sotto agli occhi. Pregio innegabile della regia è infatti la capacità di rinunciare a realizzare una “bella confezione” per dipingere invece un grande affresco corale (o meglio, un galleria di ritratti singoli): controverso, ambiguo e a suo modo affascinante.

Un film che, consapevolmente ben lontano dall’essere piacevole, ha il merito di riuscire a condensare efficacemente nella durata della pellicola un’intera umanità con tutto il suo carico di contraddizioni, di grandezze e di meschinità.

Afferma infatti il regista:

Indubbiamente la violenza, il corpo a corpo fisico, è il mio modo – la mia chiave – per entrare nella storia, ma nel film c’è anche una vena intimista, cerco di scavare nelle motivazioni segrete dei comportamenti umani. Diciamo che l’ enorme evento collettivo della strage era anche un’ occasione per ritrarre degli esseri umani con tutte le loro contraddizioni…”

E’ un’ opera in un certo senso “umanocentrista”, perché il centro nevralgico della sua narrazione sono uomini e donne che, seppur individualisti e immorali o spietati e crudeli,  vivono e lottano per sopravvivere: se di certo non è un inno alla virtù, lo è alla capacità dell’uomo di resistere ai suoi simili.

Sono individui tenacemente attaccati alla vita, quelli raccontati da Chéreau, che compiono il bene o il male sulla base di una profonda consapevolezza del proprio essere e della propria identità, e che – anche in punto di morte – gridano al mondo la loro esistenza e il loro diritto di esistere in quanto uomini, buoni o cattivi che siano.

Molti (forse troppi) i temi toccati dalla vicenda: oltre alla storia come moto continuo di soprusi, il potere come ossessione e malattia, la Corte come palcoscenico del mondo, la vita come recita, la religione come pretesto di intolleranza, la violenza nei rapporti famigliari…

La narrazione, costruita per eccesso e per accumulo, finisce per sopraffare lo spettatore e per renderlo un po’ inerme rispetto agli eventi, costringendolo a vedere le azioni dei personaggi “a distanza ravvicinata”.

Attenzione, non è detto che questo sia un difetto. Così infatti il film può procedere senza curarsi troppo dello spettatore, così come la Storia (e questa storia in particolare) avanza senza curarsi troppo degli uomini: disordinata e convulsa, insensatamente feroce, torbidamente imprevedibile.

Gli ambienti sono quelli chiusi e claustrofobici del Louvre, reso efficacemente con scenografie e architetture spoglie dalle forme geometriche e dominato dai colori del sangue e del lutto. Qui si consuma il dramma dei personaggi: ossessionati dal tradimento e da una psicosi collettiva di accerchiamento, sono governati da una logica (auto)distruttiva che non risparmia nessuno, nemmeno i membri della propria famiglia. Tutti, le vittime e i loro carnefici, ne usciranno alla fine sconfitti.

Se vogliono sopravvivere i puri di cuore, gli idealisti e gli innocenti devono saper recitare bene una parte e imparare ad agire per interesse, a mascherare le proprie intenzioni, conoscere i meccanismi segreti e nascosti della grande macchina della corte, che può rendere grandi gli uomini così come abbatterli. In generale, insomma vale il buon principio che non c’è  mai speranza per i vasi di terracotta, costretti a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.

Su tutte  le interpretazioni spicca quella di Virna Lisi (miglior interpretazione femminile al 47° Festival di Cannes) nei sontuosi panni di Caterina de’ Medici: figura solitaria e ieratica di machiavellica maestra della realpolitik e della ragion di stato, odiosa ma soprattutto odiata, ama morbosamente i suoi figli maschi, disprezzando quella femmina, ordendo intrighi e architettando assassinii in nome della famiglia.

Fanatica religiosa per puro calcolo politico, “Caterina è la durezza, la crudeltà, la solitudine del potere …”, spiega il regista. Non le è da meno però Jean-Hugues Anglade (Premio César 1994 come miglior attore non protagonista) che interpreta il fragile figlio Carlo, tormentato da un insanabile conflitto interiore tra il desiderio di trovare una figura di amico e confidente e la consapevolezza di essere destinato a rimanere solo.

“Si preoccupano i tuoi protestanti, ti sospettano di tradimento. Che cos’è il tradimento? La capacità di seguire il corso degli eventi, tutto qui”

Dal punto di vista visivo è un film fisico, di umori che colano, grondano e schizzano, trasudano da corpi regali e plebei. Il meraviglioso finisce sempre per ballare stretto con il mostruoso, l’amore con la morte, la crudeltà con la pietà in questo dramma labirintico, che costringe lo spettatore a guardare fino in fondo tutto quel che c’è da vedere, senza nascondere nulla e facendo sorgere nel pubblico un dubbio fondamentale: che sublime e grottesco siano sempre più legati di quel che sembra.

“Teatro degli onori, scala della grandezze, campo aperto delle conversazioni e delle amicizie; chi insegna ad obbedire e a comandare, ad essere libero e servo, a parlare e a tacere, a secondare le voglie altrui ed a dissimulare le proprie (…) La corte prende gli uomini con la speranza, come gli ami prendono i pesci”.

da Cesare Ripa, Iconologia

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