Ognuno potrebbe … Sì, ma cosa?

Il poeta inglese John Donne scrisse che “Nessun uomo è un’isola”, ma non considerò forse la possibilità che ciascun uomo possa diventare un’isola. Sono veramente isole, per non dire monadi, i personaggi che animano l’ultimo romanzo di Michele SerraOgnuno potrebbe.

L’atmosfera che si respira fin dalle prime pagine è tragicamente e dolorosamente ironica, al limite del surreale. Giulio Maria, il protagonista del romanzo,  ricorda molto da vicino una maschera pirandelliana, un vinto alla stregua dello Zeno Cosini di Italo Svevo, incapace perfino di spegnersi l’ultima sigaretta.

Un vinto dei giorni nostri, trentaseienne, inguaribile pessimista e relegato in un polveroso ufficio di una facoltà universitaria non meglio definita a studiare l’esultanza calcistica. Ebbene sì, cataloga insieme all’amico Ricky i moti di esultanza, più o meno bizzarri, che le telecamere riprendono durante le partite di calcio, con meticolosità quasi enciclopedica.

Tutto questo a che scopo? Non si sa. Tenersi impegnati, guadagnare 700 euro al mese ed evitare di divenire preda della depressione e del grigiore infinito della città di Capannonia, dove si svolge la vicenda.

Nonostante non sia soddisfatto della sua posizione, è sempre meno gravoso dell’assumersi responsabilità: come potrebbe farlo lui, che non è neppure in grado di liberarsi del capannone del padre falegname, ancora popolato da frese e cataste di macassar.

Ma il vero problema e il vero nemico di Giulio è l’egofono. Che cos’è, vi chiederete? Semplicemente la traduzione italiana e pedissequamente letterale di iPhone, divenuto per eccellenza l’emblema del capitalismo, del consumismo e dell’individualismo.

iPhone significa certo tecnologia e prestazioni avanzate, ma soprattutto omologazione ed appartenenza ad un medesimo gruppo, è ormai uno status symbol. Ed è l’Io l’ossessione primaria di Giulio, un Io che diventa ingombrante, che assume proporzioni incontrollabili e impensate, che teme addirittura di imbattersi nel contatto con l’altro sui marciapiedi.

Al bar o a cena con la fidanzata Agnese, Giulio teme di essere il terzo incomodo, tra la sua ragazza e il suo egofono. Un egofono che fa la sua comparsa in qualsiasi luogo e a qualsiasi ora e condizione, che illumina improvvisamente il buio della notte. Una volta c’era la luna … Già, una volta.

.Come se una coltre di memoria joyciana rivestisse la terra, Giulio si aggira inerte ed inerme allo stesso tempo in una valle sterminata popolata da possessori di egofoni – ho un egofono, quindi sono – e costellata da capannoni, residui industriali e costruzioni che si ripetono identiche per chilometri.

Chilometri in cui ci si perde, in cui l’uguaglianza e la ripetizione abbacinano, confondono e stordiscono. Sembra che l’immobilità e la rassegnazione siano l’unica risposta possibile per un giovane adulto o un ragazzo cresciuto, a seconda del punto di vista, come Giulio.

Capannonia assume le caratteristiche del non-luogo, ipotizzato ed esemplificato dall’antropologo francese Marc Augè: luogo di passaggio, di transizione ma non di vita vissuta.

Ma allora, ognuno potrebbe cosa? “Ognuno potrebbe salvare il posto dove vive. O perlomeno ha il diritto di vivere per un istante – anche un solo istante, come capita a me questa mattina – pensando che sarebbe capace di farlo”.

Questo è il compromesso che Serra raggiunge attraverso le azioni e le parole di Giulio, ma ciascuno ha il suo “potrebbe”: il suo sogno inespresso, il suo desiderio irrealizzato, la sua sfida impossibile, la sua missione impensabile; basta fissarsi una meta, basta puntare ad un obiettivo.

E’ il nostro personale “potrebbe” a dare il senso alla nostra vita, a rendere la nostra vita degna di essere vissuta. La musica dei Kings e la voce di Caleb Followill sono il sottofondo musicale dell’intero romanzo: “Ci deve essere stato almeno un momento, nella vita di Caleb, forse da bambino, forse da ragazzo, in cui ha pensato che toccasse proprio a lui e alla sua voce salvare l’Oklahoma”.